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La caccia al pesce spada con l’arpione

domenica 5 agosto 2007

Il pesce spada, a differenza di quanto avveniva nell’antichità, oggi è universalmente conosciuto, sia per il suo simpatico aspetto, sia per le caratteristiche biologiche, sia per le sue eccellenti qualità gastronomiche.
Esso si pesca ormai in molte parti del mondo con i sistemi più disparati. È noto tuttavia che il più caratteristico e spettacolare dei sistemi di pesca dello spada è quello con l’arpione, usato nell’area dello Stretto di Messina. Si tratta di un tipo di pesca (o di «caccia», come anticamente si qualificava), praticata da secoli più o meno con la medesima tecnica, specie nella fase conclusiva della cattura e del conseguente recupero della preda.

La pesca con l’arpione è resa possibile dal fatto che il pesce spada, animale predatore agile, intelligente e veloce, amante delle profondità abissali, stranamente a fine aprile è solito comparire lungo le rive dello stretto di Messina e zone limitrofe, in acque relativamente basse. Ancora più strano poi il comportamento di questo pesce nei mesi successivi, da maggio ad agosto: si presenta impacciato e intorpidito, si fa sorprendere in bassi fondali o fermo a fior d’acqua, si distrae dai pericoli giocherellando da solo o con la propria compagna, si fa raggiungere abbastanza agevolmente dalle imbarcazioni che gli danno la caccia. Ciò comporta che, una volta avvistato, lo spada ben difficilmente sfugge alla propria sorte.

Un’altra sua originalità è poi la presenza alternativa lungo le due rive dello Stretto: per tutto maggio e giugno sul versante calabrese fra Cannitello e Palmi; per tutto luglio e agosto (talvolta fino a metà settembre) su quello siciliano, dal torrente Annunziata a Capo Peloro.
L’arma adoperata per questa tipica pesca diurna è un’asta lunga oltre quattro metri, cui è applicato un arpione in ferro temprato. L’ arpione può essere di due tipi: uno per prede dalla carne tenera (come il pesce spada e il tonno), chiamato «ferru» e costituito da una punta lunga circa 25 cm., munita di quattro alette, con funzione di ritenuta, incardinate all’asse centrale; l’altro per prede dalla carne più consistente (come gli squali), «draffinera», costituito da una punta un poco più corta della precedente e munito di due sole alette di ritenuta. Altri tipi di pesce (aguglia imperiale, mola) sono catturati con una grossa fiocina a sette denti, detta «friccina».

In atto "” da circa trent’anni "” la pesca con l’arpione si pratica con imbarcazioni motorizzate chiamate passerelle o anche (con termine tradizionale) feluche» a motore. Sono lunghe fra i 12 e i 20 metri, munite di uno, due o anche tre motori di varia potenza che consentono loro rilevanti velocità. La caratteristica di questi strani natanti, che conferisce ad essi un aspetto inconfondibile, è un enorme albero a traliccio alto fra i 20 cd i 35 metri, nonché una lunghissima passerella (in parte retrattile come le scale dei pompieri), sporgente dalla prora come un enorme e spropositato bompresso, per una lunghezza che può variare dai 20 ai 40 metri. Un fitto intrico di cavi metallici sostiene albero e passerella, facendo apparire le moderne «feluche» come surreali animali da fantascienza. Si tratta in realtà di perfette macchine da preda, cui nessun pesce, una volta avvistato, può sfuggire agevolmente.
Sulla cima dell’albero sono sistemate le leve di comando del motore e gli organi di guida del natante, azionati da uno o due uomini, i quali, dotati di vista eccezionale, di insensibilità alle vertigini ed alle amplissime oscillazioni, nonché di pazienza e stabilità emotiva a tutta prova, trascorrono intere giornate alla ricerca dello spada. Avvistata la preda, essi dall’alto hanno il compito di avvisare opportunamente l’equipaggio in coperta, e di dirigere con precisione l’imbarcazione lungo i volubili percorsi del pesce. La vedetta-timoniere farà quindi in modo da portare sulla verticale di esso l’estremità anteriore della passerella, sulla quale "u lanzaturi" , accuratamente scelto fra i più abili, potrà agevolmente e con estrema violenza lanciare il proprio attrezzo dall’alto in basso e ferrare così la sua preda. Ben difficilmente egli mancherà il bersaglio. Altrettanto impossibile per il pesce trafitto liberarsi dell’arpione, costruito secondo una tecnica raffinata e collaudata da secoli: pare infatti che su dieci ferri» costruiti ne riescano perfetti soltanto un paio: per questo, per antica tradizione, il fabbro ferraio che li costruisce in geloso segreto non li vende ai pescatori, ma glieli affida in uso, ricevendone in cambio una determinata parte del pescato.
Una volta arpionata la preda, per l’esperto equipaggio della feluca (per lo più costituito su base familiare) il più è fatto: la punta del «ferro», rimasta conficcata nel corpo del pesce spada, è collegata ad una sagola (chiamata protese) lunga anche più di 500 metri, la quale si svolge ordinatamente da bordo seguendo i convulsi movimenti della vittima, allo scopo di farla lentamente stancare e dissanguare. Non appena poi il pesce dà i primi segni di cedimento, i pescatori ne iniziano cautamente il recupero agendo sulla sagola e quindi utilizzando robusti rampini, con i quali lo immobilizzano ai bordi dell’imbarcazione di servizio della feluca. Queste operazioni secondarie non sono infatti compiute dalla barca principale, ma dal piccolo battello che essa porta sempre a rimorchio. Ciò avviene sia perché in tal modo l’opera di recupero si svolge più agevolmente, sia perché nel frattempo la feluca ha la possibilità di dedicarsi alla ricerca di una nuova preda.

Ben diversamente era condotta la caccia sino alla fine degli anni Cinquanta, prima cioè della applicazione delle passerelle prodiere ad imbarcazioni da pesca motorizzate.

Si trattava di un sistema di pesca vecchio di secoli, se non di millenni. Più che una tecnica, era un fatto personale fra pescatore e pesce spada, un duello leale ad armi pari, dove ognuno dei contendenti aveva uguali possibilità di vittoria. Non era raro il caso che vincesse il pesce (si calcola che il 60% di quelli avvistati sfuggisse al lancio), allorché con un guizzo si inabissava lasciando il lanciatore deluso ... coperto dalle atroci contumelie dei pescatori. Talvolta lo spada, reso furioso dal dolore di una ferita, assaliva i suoi inseguitori lanciandosi contro l’imbarcazione che gli dava la caccia e giungendo addirittura a perforare il leggero fasciame con grave rischio per gli occupanti: le cronache ed i racconti dei vecchi marinai ci attestano La frequenza di simile evento.
I metodi di pesca del pesce spada erano allora due (a prescindere dai sistemi utilizzanti mezzi diversi dall’arpione o «draffinera»): uno adoperato lungo le coste calabre dello stretto di Messina ed uno lungo le coste siciliane.

Il primo, descritto dallo storico greco Polibio (e riferito da Strabone), risale quantomeno al secondo secolo a.C. Esso sfruttava per l’avvistamento le alture rocciose a picco nel tratto di costa fra Scilla, Bagnara e Palmi, su ognuna delle quali era sistemato un uomo dalla vista acutissima, il quale da una altezza variante fra gli 80 ed i 150 metri, poteva controllare un ampio specchio di mare, corrispondente ad una «posta» ben determinata nei suoi confini.
L’avvistatore, nello scorgere il pesce, ne segnalava la presenza (con grida e con i movimenti di una banderuola) all’equipaggio di una piccola speciale imbarcazione chiamata «luntro», che si trovava in attesa ai piedi di ogni osservatorio e che si lanciava velocissima nella direzione indicata. Mentre la vedetta sull’altura continuava a fornire a voce indicazioni sulla posizione del pesce, il compito di dirigere con più precisione il «luntro veniva assunto da uno dei pescatori imbarcati, il quale saliva su un alberello sistemato al centro del piccolo natante e faceva in modo che il lanzaturi giungesse a distanza utile dalla preda. A quel punto il pesce veniva arpionato pressoché con la medesima tecnica e con lo stesso attrezzo adoperato oggigiorno.

Questa imbarcazione, il cui nome tipico deriva verosimilmente dal termine latino «linter» (barchetta), all’epoca di Polibio e Strabone (cioè fra il secondo secolo a.C. e il primo secolo d.C.) era un minuscolo natante il cui equipaggio si componeva di due soli uomini, un rematore ed un lanciatore sistemato a prora; la velocità doveva essere assai scarsa e quindi molto limitata la relativa efficacia operativa. Infatti la tecnica di pesca del tempo non era basata sulle sue possibilità di attacco, ma più che altro sulla probabilità che il pesce spada venisse sorpreso fermo in affioramento o si avvicinasse incautamente ad una delle tante imbarcazioni in agguato. Invece la fonti storiche del Cinque- Seicento descrivono il luntre come barca «da attacco», condotta da più rematori e velocissima, in grado di operare isolatamente col solo ausilio di una vedetta e di inseguire con successo il pesce spada durante le sue evoluzioni, navigando anche contro corrente (è noto che le correnti dello Stretto sono spesso fortissime e raggiungono anche i sette nodi).
Infatti questo singolare natante acquista la forma definitiva e La propria individualità verso la metà del Seicento, allorché vengono indicate con esattezza le dimensioni del «Luntre», le sue attrezzature, l’armamento e la tecnica d’impiego, rimasti inalterati fino ai nostri giorni. Da tale periodo in poi esso rimane una tipica imbarcazione dello Stretto di Messina, specificamente concepita e utilizzata per la cattura del pesce spada.
Agile ed elegante, il luntro era lungo 24 palmi (m. 6,24), largo poco più di 6 palmi (m. 1.65), alto di costruzione cm. 80. Portava al centro un alberello (garriere o farere), leggermente piegato all’indietro, alto m. 3,50, sul quale un avvistatore (farirotu) saliva a mezzo di alcune tacche in legno di forma circolare chiamate rutedde; da qui l’uomo teneva il pesce avvistato sotto attento controllo nella fase di avvicinamento, indicandone esattamente i movimenti e la posizione ai rematori. I suoi comandi venivano impartiti con parole convenzionali, quasi delle formule rituali, che fino ai primi dell’Ottocento erano greche odi chiara etimologia greca (manosso va fuori; manano a mano destra: mancato a mano sinistra; stinghela viene in terra).

Opportuno precisare a questo punto che il «luntro» aveva una curiosa caratteristica: avanzava di poppa, sulla quale era sistemato il lanzaturi. I motivi di tale stranezza non sono noti, ma tuttavia intuibili. La poppa innanzitutto, rispetto alla prora, forniva al lanciatore una superficie di appoggio più vasta e più stabile, oltreché più vicina al pelo dell’acqua; certamente poi l’esperienza avrà suggerito sin dall’antichità ai pescatori l’intuizione di un noto principio di idrodinamica, affermatosi universalmente solo in tempi moderni con l’adozione della «prora a bulbo (che consente di realizzare "” a parità di velocità "” un notevole risparmio di energia motrice). I disegni e la tradizionale denominazione della varie parti del luntro, tengono chiaramente conto di questa particolarità del natante: per esempio il remo più vicino al lanciatore è detto «remu di puppa», evidenziando il fatto che egli si trova proprio a poppa e non già a prora, come potrebbe apparire. È chiaro quindi che anche nel corso di questa descrizione indicheremo per «poppa» la parte dell’imbarcazione che avanza.

Il lanciatore aveva a propria disposizione due attrezzi, «ferru» e «draffinera», impiegati per l’arpionatura, a seconda del tipo di cattura, più o meno come ai nostri giorni. Gli arpioni venivano tenuti appoggiati a due speciali supporti fissati a ventaglio alle murate di poppa, uno per parte, chiamati maschitti.

La propulsione di questa strana imbarcazione era assicurata da quattro lunghissimi remi: due a poppavia dell’alberello, lunghi entrambi m. 4,68, chiamati uno «remu di puppa» e l’altro «remu "˜nto menzu»; due a prora (cioè dal lato opposto a quello del lanciatore), chiamati rispettivamente «stremu» e «paledda», lunghi m. 5,72 il primo e m. 5,46 il secondo. Questi due ultimi remi erano evidentemente di enormi dimensioni rispetto alla lunghezza della barca ed avevano la importante funzione di comandarne la direzione seguendo i guizzi e le giravolte del pesce.
Essi trovavano fulcro all’estremità di due eleganti bracci, sporgenti dai fianchi del «luntro. per circa 80 cm., chiamati «antinopuli. oppure «anchinopuli». I rematori, fino a tutto l’Ottocento (e sporadicamente anche nei primi anni del Novecento) erano cinque; la barca si diceva allora «armata a croce» ed in tal caso, mentre i due remi prodieri venivano manovrati, uno per ciascuno, da altrettanti uomini, gli altri due remi erano azionati da tre pescatori seduti sulla stessa panca. Per questo il relativo sistema di voga era chiamato in gergo a "˜ssittata: il vogatore centrale (detto mezziere) aveva la funzione di aiutare, secondo le necessità dell’inseguimento, ora il rematore di destra, ora quello di sinistra. Ciò comportava, a parte la maggiore forza propulsiva, una singolare celerità di virata.

Dalla fine dell’Ottocento in poi questo metodo di voga fu lentamente sostituito da un altro, più semplice ed economico: i vogatori erano soltanto quattro, ognuno dei quali azionava un remo. Tutti vogavano stando all’impiedi e rivolti verso il senso di moto, cioè verso la poppa.
Entrambi i sistemi propulsivi erano comunque di grande efficacia pratica: gli enormi remi, adoperati magistralmente, conferivano al «luntro» una velocità eccezionale ed una sorprendente capacità evolutiva, tale da consentirgli di virare quasi istantaneamente per seguire la preda nei suoi improvvisi ed imprevedibili movimenti di corsa.

L’imbarcazione era costruita in pino, gelso e quercia, con prora e poppa affilatissime; nel contempo aveva ordinate poco stellate in maniera da ridurre al minimo la superficie dell’opera viva e, per conseguenza, il dislocamento. Il fasciame era assai sottile e leggero, tanto che un motivo ricorrente nelle antiche cronache locali era la relativa facilità con cui il pesce ferito riusciva a perforano con la propria «spada» nell’ultimo suo guizzo, prima di arrendersi, con grave pericolo per l’equipaggio. Molti vecchi pescatori della riviera peloritana, specificamente interpellati, hanno confermato che siffatto incidente "” oggi impossibile "” non era raro all’epoca del «luntro»; tutti poi hanno almeno una volta assistito o subìto un evento del genere, o, quantomeno, hanno conosciuto qualcuno che lo aveva personalmente vissuto.

La barca era tradizionalmente dipinta all’esterno di nero, verosimilmente per risultare meno visibile al pesce, e all’interno di verde. I migliori esemplari si costruivano in Calabria a Bagnara e Scilla, là dove cioè per lunghi secoli il luntro era stato utilizzato per la caccia al pesce spada. Buone barche "” tuttavia "” si costruivano anche in Sicilia, nei piccoli cantieri di Ganzirni e della Riviera.

Lungo le rive dello Stretto possono ancor oggi vedersi un paio di esemplari di «luntri», sia pure trasformati in ordinarie barche da pesca. La loro linea elegante e inconfondibile, pure celando l’oltre mezzo secolo di vita di ognuno, ne rileva la gloriosa origine di implacabili cacciatori di pesci spada!

Un pregevole esemplare è stato qualche anno fa sottratto alla distruzione ed acquistato dalla locale Amministrazione Comunale, che ne ha curato il restauro e lo ha dotato di tutte le attrezzature di un tempo. È stato più volte esposto al pubblico, quale splendido cimelio storico ed etnografico. Tuttavia, nonostante l’enorme interesse destato, negli ultimi tempi il vecchio «luntro» è stato alquanto trascurato. Di recente, però, la Sezione di Messina della Lega Navale Italiana si è assunto il compito di ripararlo e di custodirlo fino a quando non sarà possibile sistemarlo in maniera decorosa in una adatta struttura stabile, quale potrebbe essere l’atteso Museo delle Tradizione Marinare Peloritane.
Mentre "” come si è visto "” le coste della Calabria da Scilla a Palmi offrono un notevole numero di comodi osservatori naturali per l’avvistamento del pesce spada, la costa siciliana dello Stretto si presenta del tutto priva ditale prerogativa, essendo per lo più piatta e sabbiosa. Proprio per questo per molti secoli lungo la riviera, ove peraltro la presenza del pesce spada nei mesi di luglio e agosto era ben nota, non si pensò di tentarne la caccia; quantomeno in maniera sistematica e intensiva. Le fonti storiche, fino al Cinquecento, sono infatti del tutto mute al riguardo e pertanto, in mancanza di dati certi, deve ritenersi che tale singolare attività peschereccia sia rimasta per lungo tempo esclusivamente calabrese.

In Sicilia essa si incominciò a praticare allorché, presentatasi favorevole la situazione socio- politica, qualcuno ebbe l’idea "” geniale quanto semplice "” di installare un lungo albero su idonea imbarcazione, opportunamente zavorrata e ormeggiata, dall’ alto del quale una vedetta potesse scrutare il mare (sia in superficie che in profondità) alla scoperta del pesce spada: più o meno come si faceva dalle rupi calabresi. Avvistato con tale artificio il pesce, era poi facile segnalarne la posizione agli uomini dei «luntri» in attesa nei pressi della barca-osservatorio, i quali, all’avviso, si lanciavano veloci per arpionare la preda utilizzando la medesima collaudata tecnica dei pescatori calabresi.
È verosimile che questa importante innovazione sia stata introdotta nel messinese fra la fine del Quattrocento e agli inizi del Cinquecento, trovando poi vasta diffusione nei secoli successivi. Infatti solo a partire da quest’epoca se ne parla diffusamente nei resoconti di viaggio, nelle relazioni scientifiche, nei trattati geografici e negli annali cittadini che ci sono pervenuti. Stupisce, anzi, constatare come invariabilmente gli autori di queste opere parlino della «caccia» al pesce spada in termini di meraviglia, descrivendola, più che una forma di attività economica, come una particolare ed originale attrattiva dello stretto di Messina. Sotto questo profilo sono numerose le «personalità» di rilievo (principi, re e vicerè) che nel corso dei secoli hanno voluto provare l’emozione di assistere a questa caratteristica caccia, o che, addirittura, l’hanno direttamente praticata.

La tecnica di pesca lungo la riviera siciliana dello Stretto venne efficacemente descritta da Placido Reina, storico messinese dcl Seicento: «. . .Tengono dunque vicino terra due barche surte su l’ancore, l’una lontana dall’altra, quant’è una tirata di mano, e su l’antenne di esse, che sono di palmi ottanta di altezza, e fatte in modo di scale a piroli per salirvi con facilità, vi stanno i guardiani. Devono costoro attentamente guardare non già nella superficie, ma nel corpo del mare, se passa il pesce spada, che ordinariamente scorra suole otto palmi sott’acqua, e tal’ora molto più insino a venticinque, e discuoprendone icuno, deono co’ gridi e con la mano mostrano a quei dei luntre, i quali, in avere il cenno rattamente piglian voga inverso il pesce, seguendolo per tutti i versi in quell’oblique giravolte, ch’egli suoi fare».

Questa tecnica rimarrà immutata nel tempo per oltre quattro secoli, cioè sino ad un paio di decenni addietro, come fanno fede le innumerevoli descrizioni successive a quella del Reina, dalle quali risulta evidente che la pesca dcl pesce spada con «luntro» e «feluca» si è sempre svolta in maniera tradizionale, senza variazione alcuna.

L’imbarcazione da posta e da avvistamento adoperata in Sicilia per questa pesca è giunta sino ai nostri giorni col nome tipico di feluca,, ed ancor oggi l’imbarcazione motorizzata munita di passe

rella ed albero di avvistamento (ben diversa dalle «barche surte su l’ancore» del Seicento) viene chiamata «feluca» dai pescatori e dalla gente di mare. Questa denominazione, tuttavia, non indica affatto l’origine araba del tipo di pesca in discorso (come sostiene qualcuno), sibbene il fatto che per l’avvistamento certamente fu utilizzato Io scafo dell’omonimo natante, che, fra il Cinquecento ed il Settecento era assai diffuso in Sicilia per il piccolo cabotaggio ed il traffico passeggeri a breve raggio.

Fu proprio questo, a nostro parere, il natante utilizzato dai pescatori siciliani dello Stretto per creare i caratteristici «osservatori galleggianti», indispensabili per l’avvistamento del pesce spada e per la sua cattura. A tale scopo la feluca presentava all’epoca le caratteristiche più adatte: dimensioni alquanto contenute e nello stesso tempo sufficienti a fornire spazio idoneo all’equipaggio ed alle attrezzature di pesca; ampia capienza per la conservazione delle prede fino al momento del loro trasporto in terra ferma; ottima stabilità anche in presenza dell’altissimo e pesante albero di avvistamento (lungo 18-22 metri), pur se agevolata dalla zavorra costituita da pietre e sacchi di sabbia; costo alquanto contenuto trattandosi di scafo assai diffuso e costruito con legname «povero» (specialmente pino delle foreste di Bagnara) dagli attrezzati cantieri calabro-siculi dell’area dello Stretto.

A questo proposito non va dimenticato che il fattore «costo» dell’ imbarcazione-osservatorio era determinante per rendere economicamente proficua la pesca del pesce spada: la barca, infatti, una volta trasformata per tale compito, non era ovviamente più adatta per altre attività, sicché il suo periodo di utilizzabilità si limitava a due soli mesi l’anno (quanto cioè durava la campagna di pesca del pesce spada). Ancora oggi del resto le feluche motorizzare (o «passerelle») vengono sfruttate dai pescatori dello Stretto per un periodo di tempo assai limitato, sia pure alquanto più lungo che nell’antichità.

La trasformazione di una feluca da traffico in natante da «posta» era alquanto semplice: si trattava di privarla delle sue strutture originarie e dell’armamento di navigazione, munendola quindi di una pontatura integrale da prora a poppa.

Sulla coperta, a partire da mezza nave e andando verso poppa, veniva praticata una apertura pressoché triangolare, attraverso la quale si poteva accedere ad una stiva di altezza assai modesta (utilizzata peraltro solo per riporvi la zavorra); per questa apertura passava poi il lungo albero, alto 80 palmi, che finiva in una scassa costituita da un solido e robusto blocco di quercia fissato al paramezzale. L’albero era munito di una rudimentale scala costituita da una serie di pioli di legno (posti a 50 cm. l’uno dall’altro), ciascuno trattenuto alle estremità da due cime annodate, le quali dal posto di osservazione scendevano fino in coperta. Il mezzo era certo scomodo ma sicuro per l’avvistatore (detto «antenniere») che doveva salire fino sulla cima dell’albero ed «ivi restare per quattro ore di seguito per fare la scoperta del pesce...», senza alcun ristoro se non un sorso d’acqua, essendo per consuetudine proibito mangiare durante il turno di guardia. L’antenniere svolgeva il proprio difficile compito con eccezionale diligenza, ben orgoglioso della proprie doti fisiche, poggiando i piedi su una tavola di legno posta trasversalmente all’albero, il cui tratto terminale gli serviva da sostegno per non cadere. L’albero (o antenna) era infine assicurato con grosse cime collegate (a prora, a poppa e lateralmente) ad apposite caviglie di legno inserite dall’interno della falchetta, la quale a sua volta, con
un’altezza di circa 20 cm., correva lungo tutta L’imbarcazione.
La feluca da posta non aveva alcun mezzo di propulsione autonomo, anche perché essa era destinata a stazionare ben ormeggiata nelle specifiche zone di mare (dette per l’appunto poste) a lei assegnate per sorteggio. Per raggiungere queste, le feluche venivano rimorchiate dagli stessi luntri di servizio (in genere due per ognuna di esse); tuttavia, qualora soffiasse vento particolarmente favorevole per direzione e intensità, per gli spostamenti si utilizzava una piccola vela latina issata sul grosso albero centrale.

Con simili mezzi, tanto semplici quanto efficaci, i pescatori dello Stretto hanno per secoli dato la caccia allo «spadaccino del mare, sempre con le stesse armi, sempre con lo stesso spirito, sempre con la stessa tecnica fatta di coraggio, forza, pazienza e abilità: quasi un rito misterioso i cui segreti vennero gelosamente tramandati di padre in figlio, fino ai nostri giorni. Oggi il motore "” dominatore dell’era moderna "” stato applicato alla feluca con risultati sorprendenti e impensabili. Svanita ogni ombra di romanticismo e di mistero, la «caccia» ha subito perso il proprio carattere rituale per assumere quello ben più pratico di semplice affare commerciale, mostrando al povero pesce spada, già oggetto di carmi e dispute letterarie, la sua unica e vera destinazione: materia prima per un ottimo arrosto!

di Rocco Sisci


Vedi on line : Fonte: Messina e il suo mare

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