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Il luntro ed io

giovedì 2 agosto 2007

Ci sono molti studiosi di scienze e di antropologia, ci sono tanti appassionati delle nostre antiche e nobili tradizioni marinare in grado di disquisire sul luntro con competenza, ma non credo che qualcuno quanto me abbia convissuto con il luntro operando con la cinepresa e la macchina fotografica, così da riportarne ricordi molto singolari.

Da studente liceale avevo praticato il canottaggio; credevo, quindi, che la scalmiera posizionata all’esterno della murata fosse una peculiarità assoluta delle imbarcazioni di competizione sportiva: una invenzione moderna.

Il mio grande stupore, al primo contatto con la pesca del pescespada, a Ganzirri, nel 1948, fu di scoprire che ben prima - chi sa quanti secoli prima - qualcuno aveva inventato questo straordinario accorgimento per dare velocità ad una imbarcazione di lavoro: il luntro. Restai per un bel po’ a bocca aperta ragionando sulla ingegnosità dell’uomo e sulla raffinatezza di quel particolare "tecnologico" che, come ebbi poi ad accertare "sul campo" (cioè nei momenti del furore dell’inseguimento), non solo rendeva il luntro la barca da pesca più veloce che avessi mai conosciuta, ma, con il meccanismo di leve sapientemente creato con il fuori scalmo, la rendeva agilissima nel pedinare i guizzi repentini dello spada e stabilissima al momento del silenzio solenne, quando il "lanzaturi", giunto a tiro, innalzava lentissimamente la punta della fiocina con cui imponeva silenzio ed immobilità assoluti.

Era un gesto da grande sacerdote del mare che faceva immergere di taglio i remi ai quattro accaldatissimi rematori con cui rigidamente riuscivano a frenare velocità, arrestare totalmente il luntro e lo facevano resistere alla irruenza della corrente. Tutto si impietriva come un gruppo da presepe del Bongiovanni: solo lo sciacquettio del mare sulla chiglia viveva ancora.

Questa fu la prima rivelazione di quel gioiello di marineria chiamato luntro: e fu un amore a prima vista che, insieme al più riverente rispetto, non si è mai estinto.

Poi venne la scoperta dell’uso di navigare: con la poppa davanti. Mi spiegarono che, essendo lì più largo lo spazio rispetto alla prua, ciò consentiva al "lanzaturi", che doveva lanciare l’arma letale stando in
piedi sulla piccola piattaforma, maggiore stabilità e, quindi, maggiore precisione del lancio.

Chiesi, allora: perché non chiamarla prua? Un sorriso di delicato compatimento fu la risposta: ad oggi non ho ancora capito. E ancora: il falere. A prima vista mi sembrò ridicolo e inutile quel corto e strambo palo con un dischetto poggiapiedi a mezzo metro dalla punta e leggermente inclinato in avanti. Cosa può vedere un uomo appollaiato a così minima altezza? mi domandavo.

Quando, poi, mi ritrovai lassù - due metri più degli altri - squassato dalle oscillazioni dei furiosi e ritmici colpi di remi, dalle improvvise ed impreviste virate e riprese, dalle impetuose frenate, quando - non avevo altro che due braccia e due mani - non riuscivo contemporaneamente ad agguantarmi alla punta del falere e ad imbracciare la cinepresa, come fossi in un rodeo marino; quando, però, riuscivo a lanciare uno sguardo oltre al prua (pardon: la poppa) di traverso alla superficie del mare scorgendo un luccichio argenteo stretto e lungo ad uno, due metri più in basso, solo a quel momento capii che anche il tozzo falere aveva una sua funzione: eccome!

L’ultima scoperta fu il pagliolo, cioè il pavimento del luntro, ed i piedi - nudi naturalmente - dei quattro rematori. E quella è rimasta segreta fra me ed il luntro di Padron Simone Arena. Disteso, coricato, inginocchiato, seduto alla nostrana o alla turca, contorto come una anguilla, fra quei piedi che pestavano fragorosamente sul legno - e talvolta sul mio corpo -, per ore e giorni con la mia fedelissima Arriflex 35 mm, ne feci il mio set per riprendere i dettagli di quella grandiosa sfida fra l’uomo ed il sinuoso spada. Le mani abbarbicate rabbiosamente al remo, le smorfie e gli urli contratti del viso, i muscoli del torso nudo che si tendevano e contraevano, le spalle inarcate nello spasimo dello sforzo rematorio di quei giovani che si erano votati a quell’arte, furono per me l’essenza vera di quel mondo in cui si confondevano uomini e mare: insieme alle ieratiche movenze di Padron Simone, il più famoso "lanzaturi" dello Stretto, quando, prima dell’attimo finale, individuata la posizione favorevole della preda alzata l’asta ed ottenuto il silenzio e l’arresto, orientava l’arpione a quattro alette ora a destra, lentamente, ora appena a sinistra, quale ordine di rotta per i rematori che con silenti e leggere remigate, come una pantera che ha adocchiato la gazzella, raggiungevano la postazione ideale per lanciare l’arma.

E da lì, con una parabola di una decina di metri che sembrava non finire mai, l’arpione dalle quattro solide alette quasi sempre infilzava lo spada.
Il tocco di carne attorno a questo foro spettava al "lanzaturi".

di Francesco Alliata di Villafranca


Vedi on line : Fonte: Cittàe Territorio 4/5/6 Luglio/Dicembre 2005

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