Ganzirri, il Peloro e lo Stretto di Messina

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Contra gladium, per gladium

giovedì 2 agosto 2007

La tradizionale caccia al pesce spada (Xiphias gladius) con l’arpione, praticata da tempo immemorabile lungo le due sponde, siciliana e calabrese, dello Stretto di Messina ha registrato la presenza, almeno fino alla prima metà del XX secolo, di un’imbarcazione di singolare interesse riguardo a configurazione materica e caratteristiche costruttive. Il luntro, (in siciliano luntru), così chiamato per probabile derivazione dal latino linter (barca da pesca a fondo piatto già utilizzata dai Romani), era un’imbarcazione lunga 24 palmi (cm. 624), larga cm. 165, con lo scafo alto circa cm. 80, dalla forma snella e slanciata (alla stregua del gladio, la lamina cornea trasparente che si trova all’interno del dorso del calamaro) e il fondo tondeggiante in modo da consentire un ridotto pescaggio. Tale configurazione, unitamente alla leggerezza del legname impiegato nella costruzione e all’esiguo spessore del fasciame, consentiva all’imbarcazione di raggiungere un’elevata velocità, anche per la particolarità del sistema propulsivo consistente nei quattro lunghissimi remi, ciascuno dei quali di dimensioni diverse; i più lunghi di essi, u stremu lungo mt. 5,72 e ’a paledda lungo mt. 5,46, poggiavano su due eleganti supporti arcuati (antinòpuli o anchinòpuli) sporgenti dalle murate di prua al fine di proiettare all’esterno della barca il loro fulcro e consentire ai due vogatori remate più vigorose, mentre i tre vogatori addetti ai due remi centrali, u menzu e u remu i puppa lunghi mt. 4,68 (il vogatore posto in mezzo si alternava nell’aiuto ai due compagni), volgevano le spalle alla direzione di marcia del luntru, che avanzava, al contrario di quanto avvenga di solito, con la poppa. Al centro del natante, tradizionalmente dipinto di nero nella parte esterna e rosso e verde all’interno dello scafo, era collocato un albero detto fareri, alto circa mt. 3,50, alla cui sommità prendeva posto, opportunamente puntellando i piedi su apposite tacche rotonde
(ruteddi) presenti a vari livelli, un avvistatore (u farirotu) il cui compito era quello di avvistare, seguendo le indicazioni che gli provenivano dall’avvistatore posto sulla più alta antenna della feluca (u ’ntinneri), e poi seguire il pescespada nelle sue veloci circonvoluzioni suggerendo con sincopate indicazioni (va jusu, va susu, va ’riterrà, va fora, tuttu paru cammòra, firìila tunnu etc.) rivolte ai rematori la direzione da imprimere al luntru, al fine di rendere possibile il lavoro del lanzaturi, il lanciatore collocato in piedi sull’estremità anteriore della poppa con il compito di scagliare, una volta che il pesce fosse venuto a tiro, una delle due lance con asta di legno e punta di ferro (traffinera o ferru) che egli aveva a disposizione, opportunamente poggiate sui loro supporti verticali (maschitti). Al momento della cattura del pesce era costumanza ringraziare Sammàrcu binidittu.

La pesca del pescespada aveva luogo da aprile a giugno lungo la costa calabra e nei mesi di luglio e agosto lungo il litorale messinese. Accordi tradizionalmente codificati assegnavano ai vari equipaggi le postazioni (i posti), tratti di mare entro i quali potevano operare le grosse imbarcazioni (le cosiddette feluche, filùi) lunghe mt.11,44, larghe mt.4 e alte mt.1,50, munite di un’antenna di vedetta, costruita in legno di abete e alta 22 mt., il cui compito era quello di avvistare il pesce per poi lasciare il posto al più agile luntru che si incaricava della "caccia" vera e propria.

Da una "Monografia sulla pesca del pesce spada nel canale di Messina" redatta in occasione dell’ Esposizione Mondiale della Pesca tenutasi a Berlino nel 1880 e riedita nel 1906 a cura della Camera di Commercio di Messina e su iniziativa dello studioso Rocco Sisci, si apprende che in Sicilia, nelle stazioni (posti) con due feluche e quattro battelli (luntri) la divisione del pescato avveniva nella misura di venti parti per ogni feluca e 2 battelli, secondo le seguenti percentuali: 2 parti per l’armatore della feluca, 1 per la barca del lanciatore, 1 per il lanciatore, 1 per la vedetta (o foriere del luntro), 3 per le due vedette che si danno il cambio sulla feluca, 6 per i cinque rematori del luntru, 4 per i quattro rematori del secondo battello, 1 per il fabbro (il ferrajo che fornisce i ferri), 1 per la Chiesa.

A partire dalla seconda metà del XX secolo si assistette alla progressiva dismissione di tali tradizionali imbarcazioni; così il glorioso luntru venne dapprima trasformandosi in un’imbarcazione a quattro vogatori tutti rivolti verso il senso di marcia per poi cadere definitivamente in disuso, mentre la feluca, in origine imbarcazione d’avvistamento (il cui compito era quindi quello di stazionare, ormeggiata lungo la riva ovvero verso l’esterno, in una determinata posta) lunga dai 12 ai 18 metri, larga 4-5 e alta 1,5-2 metri, munita di albero alto circa 20 metri, venne trasformandosi nelle moderne "feluche a motore", dette anche passerelle per la lunghissima passerella (35-40 mt.) che fuoriesce dalla prua, grandi imbarcazioni a motore lunghe più di 20 metri e munite di altissimi tralicci (circa 30-35 mt.) a mò di antenne di avvistamento, o venne addirittura sostituita da sistemi di pesca basati sull’utilizzo di reti e palangresi indubbiamente molto più efficaci e redditizi ma incomparabilmente più poveri e del tutto privi della dimensione agonistica e in un certo senso di sfida paritetica che ha da sempre contrassegnato il rapporto tra uomo cacciatore e animale cacciato presso le culture tradizionali.

Non a caso per il tipo di pesca effettuata con l’arpione come quello qui esaminato gli studiosi utilizzano assai spesso la denominazione di "caccia". Da tale caratteristica deriva alla pesca al pesce spada una serie di caratteristiche di rilevante valenza antropologica, riscontrabili pressoché costantemente in tutte le comunità alieutiche del Mediterraneo: pari condizioni di partenza tra cacciatore e animale cacciato, andamento rituale delle operazioni di caccia, intimo legame (di tipo, si direbbe, totemico) con il pesce, fonte di sostentamento alimentare per la comunità e al contempo - se preda abbondante - indicatore di status, in definitiva animale mitico, mitizzato ovvero sottoposto a pratiche di conferimento di senso, a interventi di plasmazione e valorizzazione simbolica, etc.

Il luntru restaurato risale agli inizi degli anni ’40; esso proviene da un cantiere di Ganzirri, ove alla sua costruzione attese un mastro d’ascia di cui ci è pervenuto il solo nome, Giosafatto. Entrato in progressiva dismissione nel corso degli anni ’70 e rimasto a lungo in stato di abbandono sul litorale della Riviera Nord, esso venne acquistato, per meritoria iniziativa del giornalista Nuccio Cinquegrani, dal Comune di Messina alla fine di quel decennio, nella prospettiva della successiva creazione di un Museo delle tradizioni marinare locali, una sorta di Araba Fenice che ogni tanto ritorna nei discorsi e nei progetti dei politici messinesi ma che forse è destinato a dimorare solo nei sogni dei vecchi pescatori e di qualche bizzarro raccoglitore di cianfrusaglie del tempo.

Dopo essere stato sottoposto ad un sostanziale intervento di restauro ad opera del mastro d’ascia Emilio Vanto in un cantiere di Scilla (con il rifacimento di ricchieddi e antinopuli), esso venne dapprima esposto in un sottoscala dell’androne principale del Municipio e quindi, a partire dal 1981, offerto per tre anni alla pubblica fruizione presso la Fiera Campionaria di Messina.

Fu quindi collocato, incongruamente, nell’area dell’ex Gasometro, ove andò incontro a un progressivo quanto umiliante degrado; rimosso in seguito da tale sede, il luntru venne dapprima custodito in un fatiscente deposito comunale a Gazzi e poi, a seguito di una campagna di stampa e di un’indagine giudiziaria, affidato alla Sezione messinese della Lega Navale. Collocato successivamente per qualche tempo all’interno dell’Istituto Nautico "Caio Duilio" su iniziativa del Preside Cardia, esso venne definitivamente, nella seconda metà degli anni ’80, dato in deposito alla Lega Navale, che ne curò il varo nel mese di giugno 1988, dopo un ulteriore intervento (di rifacimento più che restaurativo, in quanto comportante la sostituzione dell’originario primu con una pesante chiglia).

Il luntru venne poi offerto alla fruizione di visitatori e scolaresche e sporadicamente utilizzato a fini spettacolari o promozionali; nel 1989 venne infatti "calato" nel lago di Ganzirri per una ricostruzione spettacolare della tradizionale caccia al pesce spada promossa dall’Associazione "Ittios Messana" e patrocinata dall’Amministrazione Provinciale. In quell’occasione vennero invitati alcuni anziani pescatori messinesi, nel frattempo emigrati.

Dopo tale ultima performance pubblica, il glorioso luntru venne custodito per molti anni nei depositi della Lega Navale, rimasti per lungo tempo chiusi. Solo alcuni anni or sono la loro riapertura rivelò l’esistenza del prezioso cimelio.

Per tutto quanto sopra esposto nel 2002 il natante è stato riconosciuto come bene rivestente un particolare interesse etno-antropologico, costituendo esso l’ultima testimonianza materica di attività lavorative tradizionali, quali la cantieristica navale dei mastri d’ascia e la pratica piscatoria, che per molti secoli hanno fatto parte integrante dell’economia e della cultura del comprensorio messinese.

In forza di tale interesse il luntru è stato sottoposto a tutela ai sensi della normativa vigente (Testo Unico sui Beni Culturali, ora Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio). L’intervento restaurativo condotto, oltre ad aver sortito la restituzione dell’imbarcazione alla sua originaria integrità formale attraverso l’eliminazione di tutte le superfetazioni che nei decenni di dismissione ne avevano pesantemente opacizzato l’identità (una per tutte, l’inopportuna e dannosa vetroresina), ha registrato l’insorgere di un circuito virtuoso che ha visto collaborare a vario titolo, ciascuno secondo le proprie finalità e competenze istituzionali, ben cinque organismi quali il Comune di Messina, la Lega Navale, il Lions Club Peloro, il Parco Letterario Horcynus Orca e la Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Messina, oltre a determinare per la prima volta l’attività congiunta, "fianco a fianco", di due valenti mastri d’ascia, Mastro Giacomo Costa e Mastro Mimmo Staiti, rispettivamente rappresentanti la vecchia e la nuova guardia della cantieristica tradizionale messinese.

Anche questo, ci pare, va ascritto a merito dell’iniziativa che qui si presenta: di avere cioè sortito come esito, cosa affatto rara e forse unica per la Messina di oggi, una comunanza di linguaggi e di sentimenti intorno a un fine comune percepito non come interesse di gruppo o di clan (il particulare di cui parlava Guicciardini) che usa tanto perseguire in questa città, sibbene un progetto speso per rinsaldare una memoria che sempre più risulta l’unico strumento atto a garantire alla città stessa navigazioni prive di rischi nei mari tormentati della modernità.

Se l’iniziativa, come crediamo, è pienamente riuscita, piuttosto che applausi di maniera essa richiede forse volontà di menti e di cuori per altre "piccole" analoghe iniziative in grado di consegnare nuova qualità di vita a una comunità ormai priva di utopia.

di Sergio Todesco


Vedi on line : Fonte: Cittàe Territorio 4/5/6 Luglio/Dicembre 2005

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