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Torre Faro: un angolo di paradiso

domenica 5 agosto 2007

Rimasi affascinata alla vista di quei vecchi legni variopinti e la strada polverosa m’invitava a proseguire quasi benevola. Le case dei pescatori, incastonate nel cuore della roccia, rilucenti d’arcobaleno , mi riportarono indietro nel tempo.

All’infanzia, quando sfogliando libri di fiabe, estasiata, ammiravo paesini fatati e con la mente spaziavo in quei mondi di sogno, dove tutto ti era concesso e le brutture della vita non potevano raggiungerti. Posteggiai al meglio e scesi dall’auto quasi con impazienza. L’odore pungente di salsedine mi solleticò le narici e improvvisamente mi apparve... Un’immensa macchia d’incredibile azzurro assorbì completamente le mie luci, immobile e pur palpitante, come se attendesse da sempre, e i battiti miei all’unisono coi suoi si dispersero nel vento. Me ne innamorai perdutamente, come non mi accadeva più da una vita, sentii quell’angolo di paradiso come sicuro rifugio. Mi tolsi in fretta le scarpe, felice come una ragazzina, mi arrotolai i pantaloni sopra le caviglie e camminai a lungo sulla battigia; le mani infilate nelle tasche dei jeans e i capelli scompigliati dalla brezza leggera.

Di tanto in tanto mi fermavo ad osservarlo: così palpitante, dolcissimo, inspirando profondamente, quasi volessi imprigionare quell’odore acre e pur dolce di mare...

Da lontano potevo scorgere qualche ruspa e già uno scheletro che, arrogante, s’innalzava verso il cielo prendeva forma. Chissà, forse nel giro di pochi anni gli scheletri si sarebbero moltiplicati. Mi sentii rabbrividire al solo pensiero che ruspe e cemento potessero contaminare quell’angolo di paradiso: la roccia livida sembrava condividere le mie sensazioni.

Per un attimo riandai col pensiero alla vita di sempre, rividi con orrore il traffico caotico della città, i semafori dagli enormi occhi spauriti, l’asfalto metallico dove talvolta mi trascinavo nei rari momenti di tregua e su cui si accendevano e si spegnevano le luci dell’alba senza che io me ne fossi mai accorta. Il cuore, pur esso d’asfalto, era divenuto troppo pigro per battere. Venni bruscamente distolta dai miei pensieri: un qualcosa... un suono indistinto come un lamento, poi riuscii a distinguere più chiaramente: -Signura... signura... fermati nu mumentu!- Queste parole riecheggiavano nell’aria e lievi andavano ad infrangersi contro la scogliera ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a localizzarne la provenienza. Per un istante rimasi immobile sconvolta da quel richiamo quasi disperato.

Poi scorsi quell’angusta finestra, da lì due braccia si dimenavano come ali di gabbiano ferito. Riluttante mi avvicinai, con i piedi insabbiati e umidi. Rimasi colpita da quel volto su cui il tempo impietoso aveva scavato solchi profondi; gli occhi: due strette fessure, proprio come quella finestra, ma la voce era ferma quando mi pregò di restare un poco a palare con lei. L’accontentai, rimasi ad ascoltare tutto quanto lei volle dirmi, era vecchia e sola e l’unico figlio l’aveva pressoché abbandonata, la città, piovra insaziabile, glielo aveva portato via...

Immobile, come in trance, lasciai che quella povera vecchia si lamentasse a lungo, incurante del tempo che mi portava via –ormai le lancette avevano perso il potere di trafiggermi- finchè troppo stanca per parlare disparve dietro quella feritoia. Un profondo senso di tristezza mi pervase interamente le membra, il cuore, il cervello... La rividi ancora, dietro quella finestra angusta, disperatamente protesa ad afferrare l’ultimo soffio di vita. Mi guardai intorno, smarrita, spinta da un bisogno improvviso di fissare in un ricetto di memoria quegli squarci d’azzurro infinito che ora, lentamente, si dileguavano per sempre!...

Avevo le guance umide, sì... ero riuscita persino a piangere, non mi accadeva ormai da un secolo!... Piansi, piansi a lungo, con tristezza, con gioia, con liberazione. Incredibilmente il mio cuore aveva ripreso a battere, confondendosi con i palpiti del mare...

Cettina Lupoi

Docente di Scuola Media


Vedi on line : Fonte: Gilda Messina

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